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Il team di The Row è vestito di nero, con camicie bianche immacolate e inamidate, e si muove quasi senza far rumore; regna una calma irreale. Le gemelle Olsen hanno creato un mondo tutto loro, di lussuosa rinuncia al superfluo. Le influenze sono chiare: Zoran, Jil Sander, il primo Yohji Yamamoto. L’esecuzione, peró, è personale: decisamente wasp e calvinista, da ricche americane dai million dollars. La loro moda è pratica, niente tacchi e nemmeno picchi di colore oltre i neutri, il bianco, il nero. Una radice maschile.

La prova di questa stagione è lirica, di una essenzialità che rasserena occhi e spirito. Dries Van Noten è uno splendido colorista, capace di accostamenti inusitati ma mai azzardati, garruli, volgari. Questa stagione, per sottolineare il messaggio di gioia che è una esplosione di rouche e di fiori, apre in nero, e in nero continua per oltre metà della sfilata. È un movimento dal buio alla luce, dal rigore scultoreo al flou spumeggiante, punteggiato da gioielli di vetro, materia fragilissima dall’apparenza coriacea, e per questo fortemente metaforica. Anche Gabriele Colangelo pensa alle tenebre che si illuminano, e spalma le forme essenziali che lo contraddistinguono con i colori accesi dell’alba. Non manca il nero, smaterializzato e alleggerito da tagli e gioielli, di un rigore affatto sensuale.

Da Courreges la semplicità ha un altro tono: teso, industriale, metropolitano, tra lattice e metallo, gonne cortissime e camicie larghe, asimmetrie e concretezze. Il tutto, peró, con i piedi piantati nella sabbia di in set che segna il tempo come una gigantesca clessidra, quasi a ricordare che la connessione tra naturale e artificiale è possibile, ed è proprio data dallo scandire astratto dei minuti. Mai sottovalutare il potere di pizzi, trine e falpalà in una stagione votata alla seduzione. Da Acne Studios la glassa zuccherina dei colori pastello, dei cuoricini e dei nastri di raso è pura copertura di un’idea di femminilità bambolesca e predace, da vera Lolita digitale. Lo humor è l’ingrediente segreto, quello che fa funzionare tutto.

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Da Undercover, rouche di pizzo bordano i tagli e le fenditure che, alla stregua di colpi di rasoio, attraversano giacche e abiti invero molto eleganti. L’equilibrio tra furia punk e grazie è notevole: il segno inconfondibile di Jun Takahashi, che del marchio è la mente. Le balze di Rochas, invece, sono distribuite un po’ a caso, senza troppa visione: Charles de Vilmorin, alla guida creativa, incespica, e non bastano la bella presenza e l’alto lignaggio a salvarlo. Da Balmain, infine, lo show è aperto al pubblico ed è parte di un concerto. L’intento inclusivo da parte del direttore creativo Olivier Rousteing è comprensibile e lodevole, ma si traduce in una collezione megalomane, deragliante, confusa, piena di citazioni mal digerite da Gaultier e Westwood. Piccolo e ben fatto, in genere, è meglio.


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